Quando il Tiranno entrò nella mia mente conobbi la vera disperazione. Altre volte avevo creduto di essere disperato: quando raccolsi Nihal mezzo morta in mezzo al fango di Salazar, quando giacevo nella cella a Zalenia, quando riflettevo sul massacro che avevo compiuto nella Terra della Notte. Solo nel momento in cui il Tiranno abbatté tutte le mie resistenze e violò la mia anima, però, solo allora seppi cosa vuol dire non avere alcuna speranza. Perché mentre lui cercava nella mia mente la verità che non era riuscito a estorcermi con la tortura, per qualche istante riuscii a vedere nel suo animo e provai quel che provava lui. Scoprii così che era un uomo irrimediabilmente disperato.
Tempo addietro aveva smesso di credere, ogni certezza si era sgretolata sotto le sue mani e alla fine erano rimasti solo il dolore e il vuoto. Fu in quel momento che lo capii. Fino allora non riuscivo a spiegarmi come un essere vivente potesse aspirare alla distruzione. Avevo sempre creduto che anche il desiderio di morte del suicida non fosse che un eccessivo attaccamento alla vita. Il Tiranno voleva l’annientamento, di sé e del mondo, perché provava una pena infinita per se stesso e per tutte le creature del Mondo Emerso. La sua non era crudeltà, ma amore per il mondo. Era convinto che l’annullamento fosse l’unica speranza per queste Terre misere e perdute.
Quando seppi che era stato ucciso, benché fossi consapevole che non c’era altro modo per fermarlo, in fondo al cuore mi rattristai, perché in fin dei conti anche lui era una vittima, come tutti noi del resto.
Mi hanno raccontato che quando Nihal uccise Aster, d’improvviso la terra iniziò a tremare e la Rocca a sgretolarsi. In quel momento io non potevo accorgermi di nulla, perché languivo nella mia cella a un soffio dalla morte, ma tutti coloro che erano sopravvissuti capirono allora che quei quarant’anni di morte e terrore erano finiti; sollevarono le spade e alzarono un urlo di vittoria. Il grido di gioia si trasmise ovunque, dal Saar al deserto, e riempì la bocca di chi fino a poco prima conosceva soltanto le pene della schiavitù. Era finita, una nuova epoca si spalancava davanti al mondo.
La battaglia imperversò sotto i bastioni distrutti della Rocca fino al calare della notte e così anche la nuova era ebbe inizio nel sangue. Molti degli uomini del Tiranno si arresero, alcuni continuarono a combattere, ma a nessuno fu risparmiata la lotta, né a chi fuggiva, né a chi restava. Gli uomini che "lottavano per la pace", come Nihal aveva detto al Tiranno, si accanirono sui vinti con la boria e la crudeltà di cui solo i vincitori sono capaci, finché non scese la notte. Allora la pace calò il suo manto sulla terra.
L’indomani un sole pallido illuminò la piana della Rocca, ingombra di macerie e intrisa di sangue. Del regno che il Tiranno aveva creato non restavano che schegge di cristallo nero e i cadaveri di chi l’aveva seguito. Ma non era solo il sangue dei suoi seguaci a colorare la terra; anche migliaia dei nostri erano morti. Raven fu trovato innanzi ai portoni divelti della Rocca; nonostante la sua boria, era stato un grande soldato e molti piansero la sua morte.
La sorte invece fu clemente con Ido, anche se più della sorte poté Vesa. Fu il drago a salvarlo. Quando lo gnomo cadde a terra privo di sensi, la battaglia imperversava intorno a lui e più d’uno stava per scagliarsi sul suo corpo per vendicare Deinoforo steso lì a fianco. Vesa si gettò sul suo padrone, lo coprì con le sue immense ali e lo protesse dai nemici; li divorò, li incendiò, fece di tutto per tenerli lontani. Fu così che Ido si salvò. Certo non era ridotto bene e gli ci volle molto tempo per ristabilirsi dalle ferite. Dopo un mese e mezzo però impugnava di nuovo la spada, con qualche cicatrice in più, ma pronto a costruire la nuova era cui tutti aspiravamo.
Le truppe del Mondo Sommerso diedero un contributo prezioso e lo stesso Varen si distinse egregiamente sul campo. Vide cadere molti dei suoi, ma combatté fino alla fine, quando la sua leggera armatura fu trafitta da una lancia nemica. Il conte però ebbe fortuna e uscì vivo da quella giornata memorabile, nonostante avesse riportato una grave ferita alla spalla.
Il prezzo più alto in vite fu pagato dai territori soggetti al Tiranno. La gran parte dei ribelli fu massacrata. Dei tremila uomini che Aires era riuscita a raccogliere non ne rimasero che trecento. Lei venne trovata ancora viva sotto un cumulo di cadaveri. Pianse a lungo la morte dei suoi, ma sapeva che quella vittoria non poteva che essere guadagnata con il sangue e il sacrificio, e che quelle vite non erano state spese invano.
Per quel che mi riguarda, mi raccolsero più morto che vivo innanzi alla Rocca. Non furono tanto le ferite del corpo a mettere a repentaglio la mia vita, quanto quelle dello spirito. Ciò che il Tiranno mi aveva fatto mi aveva devastato; la mia mente era sconvolta, la volontà di combattere per la salvezza era fuggita. Coloro che mi curarono mi sottrassero alla morte e non le permisero di portarmi via. Fu così che lentamente tornai alla vita. Quando mi svegliai da quel lunghissimo sonno ero ignaro come un bambino e molti credettero che fossi impazzito. Dovetti imparare di nuovo a vivere, rieducare la mia mente al mondo. Lentamente i ricordi di quel che ero stato tornarono e io rinacqui.
Non riuscirono però a salvare la mia gamba. È ancora al suo posto, ma non posso più usarla e me la trascino dietro inerte. Comunque, ormai ci ho fatto l’abitudine e trovo che il bastone mi dia un’aria da reduce e mi faccia sembrare più saggio. Ora che la barba si è allungata, mi sembra di somigliare davvero ai savi del Consiglio che io e Aster immaginavamo da bambini. Certo, in tutto questo mi ha aiutato ciò che Aster non ha mai avuto e sempre ha desiderato: l’amore.
Quando mi trovarono ai piedi della Rocca, accanto a me c’era Nihal. Al suo collo il talismano era diventato nero e lei non respirava.
Per molti giorni fu creduta morta. La portarono nella sala d’armi dell’Accademia, dove la composero con indosso la sua armatura, il simbolo bianco che spiccava luminoso sul petto, e la spada, che avevano ritrovato accanto alle rovine del trono di Aster. Le tributarono tutti gli onori, perché era stata lei a uccidere il Tiranno e a lei si doveva la salvezza del Mondo Emerso. Oarf si accovacciò al suo fianco. L’aveva attesa per tutta la durata della battaglia nell’arena, aveva lottato valorosamente contro i nemici. Ricordava la promessa di Nihal, che si sarebbero rivisti alla fine di tutto e che sarebbero stati insieme per sempre, ed era venuto per prestare fede a quella promessa che Nihal non aveva saputo mantenere. Sembrava intenzionato a restare lì e vegliare la sua padrona per l’eternità.
Il rogo, l’onore al quale tutti i Cavalieri avevano diritto, era previsto di lì a pochi giorni, ma la data venne rimandata, perché nel frattempo stava accadendo qualcosa di inaspettato e straordinario. Il corpo di Nihal non mostrava alcun segno di corruzione, era roseo e pieno, come se lei fosse ancora viva.
«Vi prego di attendere» disse Soana tra le lacrime a Nelgar, che premeva perché i riti funebri fossero compiuti al più presto. «Non so spiegarvi perché, ma sento che la storia di questo Cavaliere sulla terra non è ancora finita.»
I presenti la guardarono con pietà, ma accolsero la sua richiesta.
Avvenne mentre il tramonto calava su Makrat. La sala era deserta, fatta eccezione per due sentinelle che vegliavano il corpo, e vi fece il suo ingresso una creatura minuta, un esserino esile e svolazzante. Le sentinelle che lo videro avvicinarsi a Nihal credettero che fosse venuto anche lui a rendere omaggio all’eroina.
La piccola creatura si avvicinò al volto di Nihal e si posò sul suo mento, poi la guardò con occhi tristi. «Ebbene, Nihal» disse piano «ti sei arresa? Hai rinunciato al tuo sogno? Sennar giace qualche stanza più in là. Lui lotta ancora e ti attende. Non credi di dover andare da lui?» Sorrise. «Hai sofferto fino in fondo, hai fatto dono di tutto ciò che avevi all’unica persona che potevi salvare. Alla fine, hai trovato lo Scopo Ultimo. Il nuovo mondo di cui ti parlavo è alle porte e tu devi esserci.»
Phos accarezzò una guancia di Nihal, come aveva fatto l’ultima volta che si erano visti.
«Il Padre della Foresta attende il suo cuore. Se io prendessi la pietra che giace sul tuo petto e la portassi da lui, egli tornerebbe alla vita. Ma avrebbe senso la sua vita, ora? A chi gioverebbe la sua esistenza? Tu servi a molti, a Sennar per primo, e hai tanto da fare, mentre il mio caro Padre della Foresta, la mia casa e il mio rifugio, il mio unico amico, ha già fatto quel che doveva. Intorno a lui c’è solo terra bruciata, alberi morti e desolazione; la sua Foresta, quella che teneva in vita, è morta. Te l’ho detto, io e il Padre della Foresta siamo un residuo del vecchio mondo, e il destino di chi ha vissuto tanto ed è molto vecchio è di farsi da parte.» Tacque ancora, come se cercasse le parole giuste. «Il Padre della Foresta ha deciso: vuole essere tuo padre, vuole donare a te la sua linfa vitale, perché tu possa vivere ancora e fare quel che devi. Non sarà facile. Il dono della vita è uno dei più belli e terribili che si possa ricevere, perché è un onore e un onere al tempo stesso. Ma io e il Padre della Foresta sappiamo che tu sei degna di questo dono.» Phos allungò le piccole mani verso Mawas, la pietra della Terra del Vento, e recitò un’incomprensibile litania. La pietra si illuminò di una vivida luce e trasmise la sua energia a tutte le altre nel medaglione. Così, anch’esse risplendettero di nuovo, non del fulgore che avevano il giorno dell’incantesimo, ma di una luce calma e rassicurante. Assieme a quella luce, il colore ritornò sulle guance di Nihal e la vita la animò di nuovo.
«Ecco, il Padre muore e la Figlia nasce. Finché avrai al collo questo talismano, tu vivrai. Non perderlo mai, perché significherebbe la morte.» Phos si appoggiò sulle braccia, come se fosse esausto. «Ora non ti resta che andare incontro al tuo sogno e al premio che ti spetta. Fai buon uso di quel che io e il mio Vecchio Albero ti abbiamo dato.»
Silenzioso com’era arrivato, Phos andò via. Da allora nessuno l’ha più visto.
Nihal si è ripresa del tutto. Non ricorda nulla della sua presunta morte o dell’incontro con Phos, ma le parole che il folletto le disse quel giorno le sono rimaste impresse nella mente e porta sempre con sé l’amuleto. È stata lei ad aiutarmi a tornare in me, a ridarmi la vita e a farmi guarire. A volte, quando ci pensiamo, ci viene da ridere: io sono zoppo e la sua vita è legata a un talismano fino alla fine dei suoi giorni. Forse siamo noi i ruderi del vecchio mondo.
La sua mente però è libera dai fantasmi; si sono dileguati come neve al sole, finalmente ridotti al silenzio. «Mi sento quasi sola, ora che le voci non ci sono più. Però è bello questo silenzio, mi dà una calma che non conoscevo...» mi ha detto una sera. Non c’è più traccia dell’incantesimo che l’ha tormentata per tanto tempo, perché anche Reis è morta, vittima del suo stesso odio. Il giorno della battaglia volle stare nella mischia, per vedere con i suoi occhi la distruzione del suo nemico. Nell’istante in cui Nihal lo trapassò da parte a parte, Reis urlò con gli occhi biancastri che sporgevano fuori dalle orbite: «È morto finalmente! Il mostro è distrutto!».
Dalla rupe dove si trovava, a ridosso della Rocca, volle scendere nella piana. Si gettò verso l’immensa costruzione, come se d’un tratto i suoi anni fossero fuggiti via, ebbra di una gioia inumana. Corse fin sotto la Rocca e fu seppellita dalle sue stesse macerie. La trovarono il giorno seguente, schiacciata da un masso. Nei suoi occhi spalancati c’era ancora tutto l’odio che aveva animato la sua vita. Di tutti i protagonisti di questa storia, Reis è l’unica per la quale non riesco a provare pena, solo un profondo disprezzo.
«In fin dei conti, anche lei è una vittima» mi ha detto invece Nihal. «Tutti siamo vittime dell’odio che ci cova dentro e aspetta un nostro momento di debolezza per soffocarci.» Per qualche tempo, dopo esserci rimessi, vivemmo un periodo di felicità. Il mondo ci sembrava giovane e pronto ad accoglierci, e per un po’ credemmo che con la morte del Tiranno tutto fosse finito, il male sconfitto, la pace tornata. Eravamo sopravvissuti ed eravamo di nuovo insieme, che cos’altro potevamo desiderare? Ma quel periodo non durò a lungo.
Presto ci accorgemmo che se abbattere il Tiranno era stato difficile, ricostruire dalle macerie non sarebbe stata un’impresa meno dura. Aster e i suoi servi non erano i creatori del Male, ma solo le sue ignare creature. Potevamo anche averli sconfitti, ma l’odio e la malvagità restavano fra noi.
La prima volta che lo capii fu quando andammo dai fammin. Da subito si era posto il problema di cosa fare di quelle creature. Erano diventati indifesi e inconsapevoli come bambini e si erano rifugiati nella Terra dei Giorni, lontano dagli occhi colmi di risentimento e dai propositi di vendetta dei vincitori. In Consiglio parlammo a lungo della loro sorte. Ci fu chi propose di sterminarli, chi di renderli schiavi; solo dopo lunghe ed estenuanti discussioni prevalse la linea mia e di Dagon: i fammin sarebbero rimasti nella Terra dei Giorni, liberi di trovare da soli la propria strada.
Così, un giorno, Nihal, Ido e io partimmo e ci recammo presso di loro per informarli della decisione. Quando ci videro arrivare, molti ci guardarono con orrore e timore, memori di quanto era stato fatto dai nostri simili, delle stragi che tempo addietro Nihal aveva perpetrato sulla loro razza.
Nihal salì su una collina. La piana che sovrastava era la stessa che avevamo percorso colmi d’ira e senza speranza durante il nostro viaggio. Non era cambiata, vi regnava la medesima desolazione di quando Aster era al potere, lo stesso senso di morte. Ora però era gremita di esseri tremanti e spauriti, gettati in un mondo di cui non capivano il senso.
«So che molti si rammentano di me, e di sicuro non conservano un buon ricordo» iniziò Nihal, mentre giocherellava nervosamente con l’amuleto che aveva al collo. «So di essere un’assassina e non vi chiedo di dimenticarlo. Il male compiuto non può e non deve essere scordato, permane nei cuori e scava un solco nell’anima che non può essere colmato. Quello che vi chiedo è di non cercare vendetta. La vendetta non dà riposo ai defunti e non pacifica i vivi.»
Tacque un istante e lasciò scorrere lo sguardo sul suo insolito uditorio. «Per questo vi domando perdono, per quel che ho fatto io e per quel che hanno fatto e continuano a fare i miei simili. Al contempo, vi prometto che anche voi sarete perdonati per ciò che avete fatto, a maggior ragione poiché non lo faceste per vostra volontà. Ora è tempo di pace. È tempo che ciascuno abbandoni la guerra e si dedichi a costruire un nuovo mondo, con la speranza che sia migliore del precedente.» Fece un’altra pausa, poi riprese, a voce più alta: «La mia gente ha deciso che questa d’ora innanzi sarà la vostra Terra. Qui sarete sovrani e padroni, liberi di cercare la vostra realizzazione nella pace. D’ora innanzi ci sarà concordia tra il vostro popolo e tutti gli altri, e vi giuro che non permetterò ad alcuno di alzare la mano su di voi. So bene che ora siete smarriti, che non sapete cosa fare; noi vi aiuteremo a trovare la vostra strada». Volse lo sguardo sulla moltitudine di occhi spauriti ai suoi piedi. «Questo è tutto. Siete liberi di andare, liberi per sempre.»
Quel giorno ci sembrò di costruire davvero la pace, ma ora so che in quel momento in realtà ebbe inizio un problema che a tutt’oggi non è stato risolto. Perché la pace tra i fammin e le altre razze è un miraggio lontano, e una guerra silente e strisciante ancora serpeggia fra le stirpi.
A Nihal fu offerta la carica di Supremo Generale dell’Accademia, ma lei la rifiutò.
«Sono troppo giovane e poco valorosa per una posizione simile» disse, così il posto fu proposto a Ido. Anche lui fece un mucchio di storie, ripetendo che non si sentiva degno e che non aveva voglia di vedersela con tutti i grattacapi che la nomina avrebbe portato con sé. Alla fine però Nihal lo convinse ad accettare e ora Ido siede sullo scanno che un tempo fu di Raven, con Vesa ai suoi piedi.
Io e Nihal ci stabilimmo nella Terra del Vento. Fui lei a insistere, perché sentiva che quella era la sua Terra.
Spesso Ido ci viene a trovare e combatte a lungo con Nihal; sono le uniche volte che lei prende in mano la spada. Ha deciso di abbandonare le armi per un po’ e la sua spada ora è appesa al muro della nostra stanza, ma non la ricopre neppure un granello di polvere e credo che lei tornerà presto a utilizzarla.
Andammo anche nella Terra della Notte, sulla tomba di Laio. Ci manca molto, la sua purezza soprattutto. Fra noi, è stato l’unico che ha attraversato questa guerra senza macchiarsi le mani. Nihal ha lasciato lì la sua armatura. Io ho lasciato in quel luogo gran parte delle mie antiche speranze.
Sono ancora consigliere. Godo di maggior credito di prima fra gli altri membri, ma resto sempre un personaggio scomodo, contro corrente. Il mio compito mi sembra più gravoso ora che in tempo di guerra e la pace è molto più fragile di quanto credessi.
La Terra del Vento è un cumulo di macerie. Quando, dopo tanto tempo, rivedemmo i resti di Salazar, fu un momento doloroso per entrambi. Entrammo nelle mura pericolanti e mangiate dal fuoco e Nihal riconobbe la fucina di Livon, dove suo padre era stato ucciso e dove tutto era cominciato.
«A volte mi sento come questa stanza» mi disse «bruciata e devastata. La mia missione è finita, ma quel che è stato non si può cancellare.»
Si avvicinò a ciò che restava dell’angolo in cui Livon forgiava le sue magnifiche armi; alla parete c’erano moncherini di spada mangiati dalla ruggine. Scoppiò a piangere.
«Non è detto che nel nostro futuro non possa esserci la gioia» le dissi. «Certo, dimenticare non è possibile. Non riuscirò mai a scordare il dolore della tortura o la disperazione nella mente del Tiranno. Però forse da tutto questo dolore nascerà qualcosa di buono. E noi due siamo insieme, non è già molto?»
Lei sorrise e mi abbracciò.
Ora siamo in questa Terra distrutta, a cercare di distillare la felicità dal dolore. Ma so bene che non resteremo qui a lungo.
«Un giorno andremo via» mi ha detto Nihal. «Voglio tornare alle origini, al mio sogno di bambina, quando desideravo essere libera e viaggiare. Saliremo in groppa a Oarf e varcheremo le correnti vorticose del Saar. Non saremo più il valoroso consigliere e il grande Cavaliere che salvarono questo mondo dal Tiranno e che non sanno salvarlo da se stesso, bensì Nihal della Torre di Salazar e Sennar il mago, e vedremo Terre che nessuno ha mai visto, mostri terribili, ma anche distese di boschi di magnificente bellezza. Ecco quel che faremo.»
Ha ragione, anch’io lo desidero e so che quel giorno è vicino. Così ho sentito il bisogno di scrivere questa storia, forse perché qualcuno si ricordi di noi dopo che avremo lasciato queste Terre, o perché Nihal non scordi mai la sua vittoria su se stessa, o forse per cercare di capire il senso nascosto di tutto ciò che è accaduto in questi anni.
C’è una domanda che il Tiranno mi rivolse e a cui non sono stato ancora in grado di rispondere: esiste la salvezza per questa terra? A volte mi sembra che avesse ragione lui, che ciò che accomuna tutte le creature è l’odio, che per certi versi siamo tutti vittime e colpevoli allo stesso tempo. Poi però penso a Nihal e allora so che vale la pena di vivere, che vale la pena di combattere, anche se la lotta è vana. Credo che la differenza tra me e Aster stia tutta qui: io ho incontrato sulla mia strada Nihal, lui no.
Tra breve andrò via e mi lascerò alle spalle un mondo che si regge su un fragile equilibrio; so che presto o tardi si spezzerà e che cederà di nuovo il posto alla guerra. So anche, però, che poi torneranno la pace e la speranza, e poi ancora il buio e la disperazione.
Non è in questo eterno circolo che risiede il senso della nostra vita?